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Società Italiana di Allergologia e Immunologia Pediatrica

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L’eczema è una patologia infiammatoria cronica ,dovuta all’interazione fra fattori genetici ed ambientali in cui un ruolo chiave è svolto anche dal sistema immunitario. La sensibilizzazione verso alcuni alimenti può essere secondaria al danno di barriera cutanea presente nella malattia. Restringere la dieta del lattante-bambino perché si collega erroneamente una riaccensione dell’eczema ad una eventuale sensibilizzazione ad alimenti non solo è inutile ma anche profondamente dannoso per le conseguenze deleterie immunologiche e nutrizionali . Qualora si ipotizzi che tra i fattori aggravanti dell’eczema ci sia una allergia alimentare occorre eseguire un percorso diagnostico preciso in un centro allergologico specializzato , percorso che dovrà culminare in un test di provocazione orale con l’alimento sospetto. Infatti, un prick test,un prick by prick e/o un dosaggio delle IgE specifiche ematiche non sono sufficienti per porre una corretta diagnosi di allergia alimentare.

Molto spesso i genitori di un bimbo con eczema hanno “paura” di applicare la crema corticosteroidea consigliata dal pediatra, pur essendo il corticosteroide topico uno dei principali farmaci utilizzati nella terapia . Questa “corticofobia” è una condizione da evitare assolutamente . E’ fondamentale inveceeducare la famiglia ad eseguire un corretto e costante trattamento per la dermatite, poichè un comportamento non adeguato potrebbe favorire scarsa aderenza terapeutica con maggiori riacutizzazioni delle lesioni cutanee. I corticosteroidi di nuova generazione, attualmente in commercio, quando utilizzati in modo appropriato, hanno un profilo di sicurezza molto ampio.

I corticosteroidi topici sono la pietra miliare della terapia dell’infiammazione cronica dell’eczema. E’ importante utilizzarli sin dai i primi sintomi di riaccensione. E’ possibile applicare la quantità necessaria di farmaco utilizzando l’unità falangetta ed in un’unica somministrazione serale, con la quale si ottengono gli stessi risultati di una duplice somministrazione. Unità falangetta: quantità di crema premuta dal tubetto che copro l’ultima falange del dito indice,essa corrisponde in genere a 0,5 gr di prodotto e serve a trattare la superficie corporea corrispondente a 2 mani di un adulto.

L’eczema è una sindrome multifattoriale complessa e allo stato attuale delle conoscenze purtroppo, non esiste una terapia risolutiva. Tuttavia, molti studi epidemiologici suggeriscono che l’eczema migliori con con l’età : il 65% dei bambini con eczema migliorano entro i 7 anni e il 74% non presenta più lesioni entro la pubertà, anche se sono frequenti le segnalazioni di recidive della malattia. Nel complesso quindi la malattia persiste anche in età adulta, anche se spesso i sintomi i presentano in forma più lieve.

Gli emollienti sono classificati in base alle loro specifiche composizioni, ma, in linea di massima, sono agenti con proprietà emollienti che idratano la cute con proprietà occlusive, che riducono la perdita di acqua trans-epidermica oppure con proprietà umettanti che attraggono e trattengono l’acqua. Gli emollienti più recenti contengono varie molecole quali glicerolo, sostituti del NMF, acido lattico, urea che agiscono sull’idratazione e sul miglioramento della barriera cutanea. Negli ultimi anni sono stati prodotti altri emollienti che contengono lipidi fisiologici ( ceramidi, acidi grassi polinsaturi e colesterolo) che favoriscono la differenziazione epidermica e correggono il dfetto del cemento lipidico intercorneocitario. In commercio ne esistono quindi varie formulazioni, emulsioni fluide, creme o latti che vanno scelti a seconda della xerosi cutanea, delle condizioni climatiche (temperatura) e delle attività sportive praticate

Nella pelle sana le cellule che la costituiscono sono piene d’acqua, circondate da grassi e oli naturali. Esse formano una barriera che trattiene l’acqua all’interno dell’organismo e allo stesso tempo non permette ad allergeni ed irritanti esterni di penetrare. Nei soggetti che soffrono di eczema, le cellule della pelle perdono la loro acqua, i grassi e gli oli naturali, formando una barriera non perfetta che permette agli irritanti esterni di penetrare. Questa situazione è spesso aggravata dall’utilizzo di saponi schiumosi (shampoo, bagnoschiuma ecc…). La perdita di acqua e l’ingresso degli allergeni esterni attraverso una barriera danneggiata causa arrossamento, infiammazione e prurito cutaneo. L’applicazione di emollienti specifici crea una protezione di superficie che aiuta a trattenere l’acqua e allo stesso tempo rende più difficile la penetrazione degli irritanti, riducendo il prurito e prevenendo le riacutizzazioni. Inoltre, l’applicazione cotante degli emollienti diminuisce l’uso degli steroidi. L’uso quotidiano degli emollienti è quindi essenziale x il trattamento della secchezza cutanea e si devono applicare sempre, specialmente in fase di remissione della malattia, e in adeguate quantità.

La detersione è indicata in tutti i bambini che soffrono di dermatite ,come parte integrante della terapia di mantenimento, anche se non c’è ancora uniformità di pensiero riguardo alla frequenza e alla durata dei lavaggi.Le linee guida suggeriscono l’utilizzo di lavaggi brevi ( 10 minuti) con acqua tiepida (36 gradi ) e con detergenti delicati, il più possibile poveri o privi di conservanti e/o profumi. Subito dopo il bagno o la doccia ,quando la cute è ancora umida, si consiglia di applicarein modo generoso un emolliente.In caso di sovrainfezione batterica, sono stati recentemente suggeriti bagni di ipoclorito di sodio opportunamente diluito.

Certamente si. Il mare e il sole in generale, hanno un effetto benefico sull’andamento delle lesioni cutanee della dermatite. E’ bene comunque, per ottenere il massimo del beneficio, cercare di arrivare al mare con un quadro clinico controllato, in modo che il contatto con la sabbia e il sudore non vadano a peggiorare le lesioni cutanee se già infiammate. L’esposizione al sole deve inoltre sempre avvenire dopo l’utilizzo di protezione solare, preferendo filtri fisici, che va ripetuta più volte durante la giornata

La reazione allergica può essere determinata dal farmaco, ma è anche possibile che il ragazzo sia allergico a una proteina alimentare contenuta in uno degli alimenti assunti. Un allergene di frequente riscontro in questi casi si chiama LTP, acronimo che significa Lipid Transfer Protein. Si tratta di una proteina contenuta soprattutto nella buccia ma anche nella polpa di molti tipi di frutta, ed in particolare in quella appartenente alla famiglia delle Rosacee (ne fanno parte vari tipi di frutta tra i quali pesche, albicocche, nespole, fragole, ciliege). La reazione allergica a tale proteina è dimostrato essere favorita sia dallo sforzo fisico che anche dalla assunzione di farmaci, in particolare gli antinfiammatori non steroidei . Sarà necessario avviare un percorso diagnostico allergologico, per testare la effettiva allergia a LTP, che è l’allergene in questo caso più probabilmente in causa. Se tale allergia viene esclusa occorrerà testare la eventuale insorgenza di allergia a ibuprofene, che può insorgere in qualsiasi momento anche se il ragazzo fino a quel momento lo ha sempre tollerato bene. Per questo è consigliabile eseguire una valutazione allergologica pediatrica specialistica.

In età pediatrica le reazioni allergiche agli antibiotici non sono frequenti e spesso i bambini vengono definiti allergici solo sulla base della storia clinica raccolta. Bisogna ricordare che se un bambino assume un antibiotico in corso di infezione e presenta un’orticaria o una eruzione cutanea spesso queste sono correlate all’infezione stessa o all’interazione dell’agente infettivo con il farmaco; non si può parlare dunque di allergia. Sarà il pediatra di fiducia a valutare il bambino ed a porre o meno il sospetto di una reazione allergica al farmaco in base alla storia clinica, ai sintomi presentati dal paziente (orticaria, lesioni cutanee, sintomi respiratori o gastroenterici, ipotensione) ed al tempo intercorso tra l’assunzione del farmaco e la comparsa dei sintomi. In alcuni casi sarà dunque necessario avviare un percorso diagnostico allergologico che può comprendere test cutanei, prelievo ematico, riassunzione del farmaco sotto il controllo medico in ospedale. Al termine della valutazione allergologica pediatrica lo specialista potrà definire se il bambino è allergico o meno all’antibiotico e prescrivere, se necessario, una lista di farmaci da evitare.

La domanda è sicuramente interessante vista la importante familiarità per allergopatie. Eʼ risaputo che la presenza di familiari di primo grado (genitori e fratelli) allergici aumenta la probabilità di avere allergie: se un solo genitore è allergico sale del 30%, se lo sono tutti e due (o ci sono anche fratelli) può salire fino al 60-80% (in base alle casistiche esaminate). Per quanto riguarda le reazioni allergiche a farmaci non vi è dimostrazione di una ereditarietà specifica. Eʼ da segnalare tuttavia che vi sono alcuni tipi di allergia a farmaci che possono essere “ereditari” e sono legati alla presenza di un particolare assetto genetico predisponente (HLA). In caso di dubbi è preferibile rivolgersi al proprio pediatra che in base alla storia clinica deciderà se e quali accertamenti far eseguire. Ricordiamo anche che esiste una associazione tipica tra asma, presenza di poliposi nasale e allergia allʼaspirina (AERD aspirin-exacerbated-respiratory-disease). Nei casi in cui vi sia malattia asmatica e riscontro di polipi nasali va sempre prestata attenzione allʼassunzione di acido acetil-salicilico e altri antiinfiammatori.

Nell’ambito delle allergie a farmaci non esiste indicazione a sottoporre i pazienti a test allergologici predittivi. Suo figlio non è mai stato sottoposto a anestesia locale, pertanto non deve fare test allergologici in predittivo. Il rischio di reazione allergica per suo figlio è pari a quello della popolazione generale. Le reazioni allergiche nei confronti degli anestetici locali hanno un’incidenza estremamente bassa nella popolazione generale e costituiscono meno dello 0,5% di tutti gli accidenti anafilattoidi perioperatori. Sono allergiche solo il 2-3% di tutte le reazioni che i pazienti presentano in corso di anestesie locali e tale percentuale resta stabile nel tempo. Non esistono per il momento fattori di rischio dimostrati. Per tale motivo l’asma allergico non è un fattore di rischio per presentare reazione, come non lo è la sospetta allergia al kiwi. Piuttosto andrebbe controllato che non sia allergico al lattice, in quanto esiste una lieve cross reazione tra frutti esotici e lattice e inoltre le rare reazioni allergiche riferite agli anestetici locali, spesso sottendono come eziologia un’ipersensibilità nei confronti del lattice, usato dagli operatori sanitari, più che nei confronti dell’anestetico.

Sua figlia ha sicuramente un’orticaria cronica. Non esiste nessun test per formulare una diagnosi di orticaria cronica: la diagnosi di orticaria è una diagnosi gestaltica, che in altre parole si fa vedendo le lesioni, denominate pomfi (quando sono in atto, eventualmente ricorrendo a foto) oppure sulla base della storia clinica, che è quella di lesioni pruriginose, migranti (cioè che cambiano continuamente di posizione e durano nella stessa sede meno di 12-24 ore) e senza preferenza di sede. Se le manifestazioni interessano anche aree del corpo ricche di connettivo lasso, come le palpebre o le labbra, si parla di angioedema (per questo la patologia viene anche definita “sindrome orticaria-angioedema”), ma si tratta in pratica della stessa malattia. L’orticaria cronica non è praticamente mai allergica (non dipende cioè da una risposta esagerata a specifici alimenti, pollini o farmaci) se non in rarissimi casi, che per questo vengono pubblicati come casi atipici. Per questo i test per le allergie (test cutanei e dosaggio delle IgEs su sangue) vengono fatti più che altro per dimostrare ai genitori che la malattia non è allergica. Ove mai i test fossero positivi, solitamente si tratta di alimenti o allergeni inalatori che non hanno nessun ruolo nel causare i sintomi; in questi casi i test dimostrano soltanto una sensibilizzazione (cioè la tendenza del paziente a produrre tante IgE) verso una determinata sostanza (denominata allergene) che non riveste alcun ruolo causale. Va detto che i farmaci antinfiammatori, a prescindere da una vera e propria allergia, possono accentuare l’orticaria cronica e per questo, se si nota una accentuazione dei sintomi con questi medicinali, è opportuno non somministrali, almeno nei periodi in cui si manifesta la malattia. La causa vera e propria della orticaria cronica non è conosciuta. Si sa però che in un quarto dei casi circa i pomfi vengono scatenati da stimoli fisici (si parla in questi casi di orticaria “inducibile”) e in questi è già la storia clinica che orienta verso questa causa. Si sa anche che in circa il 40-50% dei casi l’orticaria cronica ha una base autoimmune e che può frequentemente associarsi ad altre malattie come la tiroidite o la malattia celiaca. Il fatto che sua figlia abbia una tiroidite orienta appunto per una orticaria autoimmune. Ai fini del trattamento non cambia nulla, perchè deve essere trattata come tutte le altre forme di orticaria cronica

La causa più frequente di orticaria acuta in età pediatrica (caratterizzata appunta da prurito e ponfi) è quella infettiva. In parole semplici l’infezione (es. influenza, faringite, gastroenterite…) agendo sul sistema immunitario determina uno squilibrio transitorio che causa l’orticaria. E’ molto rara una allergia a qualcosa (es. alimenti o farmaci) e quando ciò avviene il nesso di causalità tra sostanza assunta e reazione è evidente, riproducibile (cioè si ripresenta all’assunzione della sostanza) e la reazione si risolve poco dopo la sospensione dell’agente causale. Non sono pertanto indicate in prima istanza prove allergiche o diete di esclusione. Il trattamento di prima linea è sintomatico con l’antiistaminico per via generale. I tempi della risoluzione non sono predeterminabili con certezza: nella maggior parte dei casi l’orticaria acuta si risolve in pochi giorni, raramente dura per parecchie settimane e può essere definita cronica. In quel caso il medico potrà suggerire approfondimenti diagnostici.

Meglio continuativamente; per valutare l’efficacia della cura è consigliabile attendere 10-15 gg di terapia.

Purtroppo no. Se continua a restare in ambienti dove ci sono i gatti, la sensibilità può aumentare e così i disturbi e può comparire anche raffreddore, congiuntivite e asma. Le faccio notare anche che l’allergia non è come comunemente si crede verso il pelo del gatto, ma in genere è verso molecole provenienti dai secreti del gatto (saliva, urine, sudore, ecc.) e che vanno a finire sul pelo.

La citologia nasale è una metodica diagnostica di grande utilità in ambito rino-allergologico. Essa permette di rilevare le variazioni cellulari di un epitelio esposto a irritazioni (fisico-chimiche) acute o croniche, o flogosi di diversa natura (virale batterica, fungina o parassitaria). Siffattametodica ha diversi vantaggi e permette:

 

  • la diagnostica differenziale delle riniti allergiche e non (le cosiddette riniti cellulari: NARES, NARMA, NARESMA E NARNE);
  • il monitoraggio della flogosi allergica;
  • la correlazione tra cutipositività e stato flogistico (marker di infiammazione);
  • valutazione delle sovrapposizioni

È proprio in quest’ambito il contributo più importante che la citologia nasale ha dato nell’ambito della diagnostica delle rinopatie in quanto ha introdotto il concetto della “sovrapposizione” di più patologie nasali; è infatti possibile, grazie alla diagnostica citologica, individuare pazienti affetti da più entità nosologiche (ad esempio: R.A. associata a NARES; R.A. associata a NARESMA, ecc). La possibilità di riconoscere tali condizioni cliniche permette di evitare errate impostazioni terapeutiche, soprattutto in quei pazienti che, pur avendo una positività per allergeni stagionali, presentano una sintomatologia rinitica perenne, con citologia positiva per eosinofili e/o mastcellule anche al di fuori della stagione pollinica dell’allergene corrispondente.La citologia nasale è una tecnica diagnostica semplice, non cruenta escarsamente invasiva che può essere effettuata in bambini di tutte le età.

La terapia anti-istaminica nella rinocongiuntivite allergica primaverile è attualmente basata sull’utilizzo di farmaci cosiddetti di seconda generazione, come la cetirizina, la levocetirizina, la loratadina e la desloratadina, i quali sono efficaci principalmente sui sintomi nasali legati alla risposta istaminica (prurito, starnutazioni, rinorrea), con un modesto effetto sedativo e un buon profilo di sicurezza generale. Nella terapia delle forme episodiche o intermittenti, gli anti-istaminici possono essere assunti al bisogno o per brevi periodi di alcuni giorni. Nelle forme persistenti, il trattamento con anti-istaminici è tanto più efficace quanto più precocemente il farmaco viene somministrato in anticipo rispetto al periodo della pollinazione: pertanto, è consigliabile iniziare il trattamento almeno 15 giorni prima dell’inizio previsto del periodo critico della pollinazione. Inoltre, in questi casi vengono prescritte terapie prolungate, generalmente della durata di 4-6 settimane; tuttavia, anche terapia più prolungare (2-4 mesi) sono usualmente ben tollerate anche in età pediatrica.

Il lavaggio nasale è una procedura minimamente invasiva, ma, fondamentale per la terapia della rinite in quanto consente di migliorare il flusso areo delle coane e allontanare gli allergeni potenzialmente scatenanti. Sono in commercio moltissimi dispositivi utilizzabili per il lavaggio della cavità nasale e del rinofaringe; esistono dispositivi monouso in sacche sterili che agiscono per caduta, dispositivi che utilizzano per il lavaggio un erogatore a soffietto che genera un’onda lavante o docce per irrigazioni nasali con atomizzatori meccanici o alimentati ad aria compressa. Anche per quanto riguarda le soluzioni saline da utilizzare vi è ampia scelta; è possibile utilizzare soluzioni isotoniche o ipertoniche a varie concentrazioni. Il pediatra saprà consigliare il dispositivo più indicato nel caso specifico per il singolo bambino.

La rinite allergica rappresenta solo una delle possibili cause di ostruzione nasale. Pertanto, sarebbe opportuno innanzitutto obiettivare l’ostruzione nasale attraverso una valutazione rinomanometrica e successivamente effettuare ulteriori esami diagnostici che comprendano una valutazione rinocitologica, un tampone nasale ed una valutazione ortodontica per indagare possibili cause infettive e strutturali. Infine, è necessario escludere una forma locale di allergia, ovvero la rinite allergica locale, attraverso un test di provocazione nasale specifico che documenti la riduzione del flusso di aria nel naso dopo inalazione dell’allergene potenzialmente implicato nella sintomatologia.

Un banale raffreddore, se dura per più di 10 giorni, può coinvolgere i seni para-nasali provocando la rino-sinusite. Il primo sintomo della rino-sinusite è la rinorrea (muco nasale), frequentemente purulenta, tosse e lieve rialzo febbrile. Il dolore della rino-sinusite ha carattere persistente ed è localizzato a parti del volto a seconda dei seni interessati. Altro aspetto confondente è rappresentato dall’uso sbagliato che si fa della radiografia del cranio per la diagnosi di rino-sinusite. Oltre ad essere inutile e dannoso, questo esame spesso dà falsi positivi; la diagnosi di certezza per la rino-sinusite è possibile solo con la rino-fibro-endoscopia o in casi selezionati con la TC.

La rinite di suo figlio e’ probabilmente causata dall’allergia alla parietaria, per tal motivo risulta limitata alla primavera-inizio estate. La terapia va improntata verso l’allergene principalmente responsabile della sintomatologia, pertanto è corretto il consiglio dell’allergologo di iniziare una immunoterapia allergene specifica per la parietaria che è nei fatti l’allergene principale. Riguardo l’immunoterapia allergene specifica o ITS, l’ITS consiste nella somministrazione per iniezione o compresse o gocce sotto la lingua, di quantita’ crescenti dell’estratto allergenico responsabile dei sintomi allergici al fine di indurre uno stato di tolleranza; la durata consigliata del trattamento è dai tre ai cinque anni.

Il ‘fumo di terza mano’ è costituito da una miscela di inquinanti che, una volta consumata la sigaretta, si deposita sulle superfici e nella polvere degli ambienti o reagisce con altri composti per formare inquinanti secondari, comportando possibili effetti nocivi sulla salute dei bambini.

L’esposizione a fumo passivo ha gravi effetti sulla salute dei bambini; i maggiori rischi riguardano in particolare la salute respiratoria con aumentata frequenza nei soggetti esposti di disturbi nasali, otiti, tosse ed asma.

E’ consigliabile portarli al parco prima della fioritura delle graminacee, e perciò è importante consultare i bollettini pollinici settimanali di zona, e comunque la quantità pollinica è più bassa dopo la pioggia, anche se questo non esclude in maniera assoluta che pazienti molto sensibili manifestino sintomi anche con bassa concentrazione pollinica

I funghi o miceti sono microrganismi che rivestono un ruolo essenziale nell’ecosistema, specie attraverso il riciclaggio di enormi quantitativi di rifiuti organici. Essi sono ubiquitari, potendo vivere sia in ambienti esterni, terreno, acqua, aria che in qualunque ambiente interno, sia direttamente, sia sotto forma di spore. La diffusione dei miceti nell’ambiente avviene essenzialmente tramite spore, la cui presenza è significativamente maggiore in condizioni ambientali ottimali, tendendo a svilupparsi a temperature comprese tra i 10° e i 35 °C, specie qualora nell’aria sia presente un idoneo tasso di umidità.

Un fattore determinante lo sviluppo di muffe nell’ambiente domestico è l’elevato tasso di umidità, prevenibile attraverso l’uso di deumidificatori e l’aereazione quotidiana della casa. Sarà poi importante evitare tappezzerie di carta o stoffa, pulire con scrupolo le zone sedi di condensa tramite specifici detergenti nonché accertarsi periodicamente del buon funzionamento e della pulizia dei condizionatori.

Fino a pochi anni fa il rachitismo da deficit di vitamina D era una patologia che colpiva soprattutto paesi in via di sviluppo a causa delle scarse condizioni socio-economiche, della malnutrizione, dell’allattamento materno prolungato ed esclusivo e dell’assenza di programmi di supplementazione con vitamina D. Negli ultimi anni tale patologia si è però diffusa anche nei paesi industrializzati, come l’ Italia, pur colpendo prevalentemente gli immigrati e comunque i bambini con elevata pigmentazione cutanea (bambini di colore) .

Una regolare esposizione del bambino alla luce solare è generalmente in grado di prevenire nel bambino sano l’insorgenza di rachitismo: il bambino deve essere portato all’aria aperta almeno per 10-15 minuti al giorno, tutti i giorni, per un totale minimo di 2 ore settimanali, avendo però l’accortezza di tenere scoperti almeno il volto e le mani

Essere allergico ad un polline di un albero da frutto (es. olivo, nocciolo, pino, ecc.) non vuol dire assolutamente che il bambino non possa mangiare il frutto che da esso viene prodotto (olive, nocciole, pinoli, ecc.). Esistono però dei casi di pazienti allergici ad un determinato polline per esempio quello della betulla, che poi hanno dei fastidi localizzati alla bocca (prurito, lieve gonfiore) se mangiano certa frutta e/o verdure come la mela, il kiwi, l’arancia, il pomodoro, ecc. Questo perché esistono delle sostanze (molecole allergeniche) simili presenti sia nel polline che nell’alimento.

Sì, altri sostanze (allergeni) che possono scatenare questo tipo di reazione sono le spore di alcuni funghi, responsabili anch’esse di una rinite stagionale, in genere estiva-autunnale, il pelo degli animali domestici e gli acari della polvere. In questi ultimi casi, se il paziente è esposto continuamente a tali allergeni, la rinite può protrarsi per tutto l’anno.

La gestione terapeutica dei bambini con allergia alle proteine del latte vaccino IgE-mediata(cioè quelli che hanno manifestato sintomi quali orticaria, angioedema, vomito, rinocongiuntivite, asma, ipotensione, etc., insorti entro pochi minuti o comunque entro 2 ore dall’assunzione dell’alimento) è cambiata negli ultimi anni perché la dieta di eliminazione non deve essere necessariamente totale e rigorosa. Recenti studi, infatti, hanno dimostrato che una larga percentuale di tali bambini, circa il 75%, può tollerare prodotti da forno che contengono latte, quali ciambellone o biscotti. E questo perché la cottura a temperature elevate e protratte nonché l’interazione con gli zuccheri ed i grassi contenuti nel dolce (effetto matrice) riducono l’allergenicità delle proteine. Allo stesso modo è noto che circa il 60% dei pazienti con APLV possono tollerare il parmigiano reggiano ben stagionato (36 mesi), perché durante la stagionatura le proteine vengono spezzettate dagli enzimi del latte, del caglio e dei batteri (idrolisi) riducendo così la propria allergenicità. Va sottolineato, però, che non tutti i bambini con allergia alle proteine del latte vaccino IgEmediata riescono a tollerare prodotti da forno contenenti latte e/o parmigiano reggiano potendo presentare, per assunzione di questi, reazioni anche gravi (anafilassi). Nel caso di suo figlio sarà necessario l’invio presso un centro allergologico pediatrico ove, dapprima, si confermi la diagnosi di APLV e,successivamente,si valuti la tolleranza verso questi alimenti a potenziale ridotta allergenicità, attraverso un test di provocazione orale da effettuare in ambiente protetto. Infatti, se è vero che diversi bambini tollerano questi alimenti, è altrettanto vero che quelli che non li tollerano possono avere anche reazioni gravi e per questo motivo il tentativo di introdurli nella dieta non può essere fatto a casa.

L’allergia alle proteine del latte vaccino (APLV) si manifesta principalmente nell’infanzia, e il fondamento della terapia consiste nella completa eliminazione delle proteine del latte vaccino dalla dieta dei bambini. Idealmente, l’alimento sostitutivo, dovrebbe essere ipo- o anallergenico, non cross-reattivo con le proteine del latte vaccino, nutrizionalmente adeguato e palatabile. Le formule a base di idrolisati estensivi sono raccomandate come prima scelta per il trattamento dell’APLV. Su un fronte parallelo, negli ultimi anni, si è fatto sempre più vivo l’interesse nei confronti di latti di altre specie mammifere, tra cui il latte d’asina, nei lattanti e nei bambini con APLV. L’entusiasmo nei confronti di questi alimenti, inizialmente legato prevalentemente al basso costo ed alla palatabilità,certamente migliore di quella degli idrolisati spinti, è progressivamente scemato con la dimostrazione, per alcuni di essi, in particolare il latte di capra e di pecora,di una elevata cross-reattività con le proteine del latte vaccino. Inoltre, da un punto di vista strettamente nutrizionale, il latte di capra è carente di alcuni fattori essenziali, quali acido folico, vitamine B6 e B12 e ferro; infine, il suo elevato contenuto proteico e di sali minerali, in particolare calcio, fosforo, sodio e potassio, comporta un eccessivo carico di soluti per il rene del lattante. Il latte di asina, la cui composizione può variare sensibilmente tra razze differenti, è verosimilmente più simile al latte umano rispetto al latte vaccino e di capra. In particolare, il contenuto proteico del latte di asina è di poco superiore a quello presente nel latte materno, collocandosi ad un livello nettamente inferiore rispetto a quello del latte di mucca, il cui contenuto proteico è eccessivo per il bambino nel primo anno di vita. Il latte di asina, inoltre, presenta un elevato contenuto di lattosio, sovrapponibile a quello del latte umano, che ne rende accettabile il sapore. Tuttavia il latte d’asina non è adeguato nutrizionalmente nei primi anni di vita poichè lo scarso contenuto lipidico ne determina il basso valore energetico rispetto al latte umano e di altri mammiferi e ciò non consente di utilizzare questo alimento, così come si presenta in natura, come alternativa alle formule anche idrolisate spinte, derivate dal latte vaccino. Inoltre il latte d’asina è molto carente in ferro, nutriente importante nelle prime epoche di vita.

L’unico episodio di vomito che il piccolo ha manifestato dopo l’ingestione di 120 ml di latte costituisce un sintomo obiettivo. Tuttavia, se questo è stato l’unico sintomo manifestato dal bambino,la diagnosi potrebbe non essere certa. Di solito nella enterocolite allergica si verificano ripetuti episodi di vomito a distanza di 1-4 ore dall’assunzione dell’alimento sospetto,che spesso si accompagnano ad altri sintomi quali il pallore, la letargia, la diarrea, etc. Un singolo episodio di vomito potrebbe esser legato ad un rifiuto ed al disgusto verso un alimento che il bambino non è abituato ad assumere e che è stato offerto in quantità inappropriata ed in un’unica somministrazione. Per quanto riguarda i tempi di un successivo Test di Provocazione Orale, se considerassimo positivo quello precedente, dovrebbe passare almeno un anno (12-18 mesi). Se lo consideriamo dubbio e se è molto motivata nel farlo, si può anticipare.

La proctocolite allergica, anche chiamata FPIAP: Food-Proteins- Induced Allergic Proctocolitis, è una condizione transitoria e benigna che tipicamente coinvolge bambini di pochi mesi di vita ed allattati al seno materno. I bambini appaiono in buona salute ma evacuano feci frammiste a sangue rosso vivo ed a volte con muco, raramente lamentano dolore di tipo addominale o al momento dell’evacuazione delle feci. La crescita ponderale rimane regolare. Gli esami ematici possono manifestare un aumento degli eosinofili ed a volte evidenziano alterazioni di modesta entità quali anemia o ipoalbuminemia.Non è infrequente che nella famiglia del bambino ci siano parenti affetti a loro volta da patologie allergiche. La proctocolite normalmente si associa a negatività delle prove allergiche. In circa il 60% dei casi è dovuta al passaggio nel latte materno di proteine del latte vaccino immunologicamente riconoscibili. Oltre al latte vaccino possono essere responsabili anche altri tipi di alimenti come la soia, l’uovo ed il grano. Ai fini della diagnosi il medico dovrà escludere altre forme di sanguinamento come le ragadi, le erosioni o le dermatiti anali, le infezioni gastrointestinali, i disordini della coagulazione ed il deficit della vitamina K. Normalmente l’eliminazione dalla dieta della madre nutrice dell’alimento offendente determina la scomparsa graduale del sanguinamento. Occasionalmente può invece capitare che il sintomo persista nonostante le restrizioni alimentari materne ma anche in questi casi il bambino continua ad avere una crescita regolare. In più del 20% dei casi la guarigione avviene spontaneamente ed in tutti gli altri casi i bambini arrivano a tollerare la dieta libera intorno all’anno di età o al più tardi entro i tre anni.

In questi ultimi anni le nostre conoscenze circa la possibilità di prevenire le allergie alimentari sono cambiate. Anni fa pensavamo che ritardare la introduzione degli alimenti potesse ridurre il rischio dello sviluppo delle allergie alimentari. Oggi sappiamo che questa strategia non funziona e forse in alcuni casi, in specie se il bambino è a forte rischio di sviluppare le allergie perché affetto da eczema o dermatite atopica, per alcuni alimenti, come le arachidi e forse l’uovo, anzi può aumentare il rischio di sviluppare la allergia. Per tale motivo, in attesa di studi, tuttora in corso, a oggi non si consiglia più ai bambini a rischio di allergia di ritardare la introduzione degli alimenti potenzialmente allergizzanti (ad es. uovo, pesce, arachidi, etc), ma di introdurli come nei bambini “normali” verso il sesto mese di vita, compatibilmente con le abitudini alimentari della famiglia. Allo stesso modo non è affatto utile che evitino alimenti allergizzanti durante la gravidanza.

La terapia dell’allergia alle proteine del latte vaccino (APLV) consiste nella completa eliminazione delle proteine del latte vaccino dalla dieta dei bambini. Le formule a base di idrolisati estensivi rappresentano la prima scelta nel trattamento dell’APLV. Purtroppo, a causa della loro scarsa palatabilità, è possibile che tali formule vengano rifiutate dal bambino. Il latte di soia può essere preso in considerazione, come sostituto del latte vaccino, se il bambino ha un’età superiore ai 6 mesi. In questi casi è, tuttavia, opportuno prima testare la tolleranza del piccolo verso le proteine della soia attraverso un test di provocazione orale, in quanto è possibile che un bambino allergico alle proteine del latte vaccino abbia anche un’allergia alle proteine della soia. Generalmente i bambini con allergia alle proteine del latte vaccino IgE-mediata (cioè quelli che hanno manifestato sintomi quali orticaria, angioedema, vomito, rinocongiuntivite, asma entro pochi minuti o comunque entro due ore dell’assunzione dell’alimento) hanno una maggiore tolleranza nei confronti del latte di soia rispetto ai bambini con allergia alle proteine del latte vaccino non IgE-mediata. Il rischio di sensibilizzazione alle proteine della soia è, inoltre, più elevato sotto i 6 mesi di vita, motivo per cui, assieme al possibile rischio legato all’introduzione di fitoestrogeni, il latte di soia non dovrebbe essere utilizzato nei primi 6 mesi di vita. La palatabilità del latte di soia è sicuramente maggiore rispetto a quella del latte idrolisato e il suo valore nutrizionale è equivalente.

In accordo con quanto indicato di recente dalla Commissione Europea di Gastroenterologia ed Epatologia Pediatrica e Nutrizione (ESPGHAN) sulle nutrizione, accanto all’allattamento al seno da effettuare se possibile fino almeno al 6 mese di vita, lo svezzamento deve essere iniziato non prima della 17° settimana di vita e non oltre la 26°. Infatti non vi sono studi che dimostrano che ritardare la introduzione degli alimenti o eliminare quelli ad alto potere allergizzante possa proteggere i bambini ad alto rischio di sviluppare allergie (ad esempio in questo caso la familiarità positiva)

L’allergia al pollame è molto rara tal quale. In circa il 5% dei casi si presenta sotto forma di crossreattività con l’uovo. Tale fenomeno è dovuto alla componente Gal d 5 che è l’allergene della carne di pollo, presente in quantità modeste anche nell’uovo. Tale allergene tuttavia si distrugge con la cottura, per cui le reazioni allergiche di solito si verificano solo dopo aver ingerito carne di pollo cruda o poco cotta. La ingestione di carne ben cotta invece induce disturbi raramente e di lieve entità, mentre sintomi più gravi possono verificarsi dopo la ingestione di carne cruda o uovo crudi, se presente allergia verso la molecola del Gal d 5. Quindi nel caso in cui il pollo risultasse tollerato prima della reazione allergica all’uovo, può essere lasciato nella dieta. Se non fosse stato mai assunto, può essere introdotto ben cotto, in osservazione. Nel dubbio, per una maggiore precisazione diagnostica, prima di fare il test di provocazione orale si può eseguire il dosaggio delle componenti molecolari dell’uovo (Gal d1, Gal d 2, Gal d 3, Gal d 4 o Gal d 5).

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